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Ancora stallo sul “made in”

Continua interminabile quella che – se non fosse una cosa seria – potremmo definire la telenovela dell’etichetta “made in”. L’ultima puntata (per il momento) ha visto in scena lo stesso viceministro Carlo Calenda con un appassionato intervento al Consiglio competitività del 28-29 maggio a Bruxelles.

Nel suo discorso il viceministro ha affermato: “Sono più di dieci anni che le imprese e i consumatori europei aspettano di ottenere una trasparenza che è già da molto tempo norma nei nostri principali mercati concorrenti. Il luogo di produzione di un bene è già oggi – e sarà sempre di più – importante per determinarne il valore. Per questa ragione, per la prima volta da decenni, stiamo assistendo a un fenomeno di reshoring delle produzioni verso Occidente” .

La situazione è in una fase di stallo completo. La proposta va approvata (o rifiutata) a maggioranza qualificata: serve cioè il voto di almeno il 55 per cento dei membri del Consiglio europeo (15 paesi) o comunque di un numero di paesi che rappresenti almeno il 65 per cento della popolazione dell’Unione europea. Nessuno dei due schieramenti in campo raggiunge una delle due soglie. L’unica possibilità di arrivare a una soluzione è che la Germania passi dal fronte del “no” a quello del “sì”. Proprio per questo, la presidenza lettone aveva proposto di applicare la tracciabilità in un primo tempo solo a ceramica, calzature e (forse) tessile-abbigliamento, rinunciando a oreficeria e legno-arredo. Anche l’idea di mettere per iscritto che l’eventuale accordo potesse essere rivisto (e dunque esteso) solo dopo un certo numero di anni, mirava a ottenere il consenso di Berlino, timorosa che il “made in” possa penalizzare le sue produzioni di auto o hi-tech, per le quali varie componenti arrivano da paesi lontani.

Prossima puntata prevista per l’autunno 2015.

 

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