Va di moda il “Back to Italy”
La delocalizzazione delle aziende italiane del sistema moda è un tema sempre molto dibattuto. Da una parte, ci sono le esigenze di bilancio delle aziende, dall’altro la necessità di salvaguardare la grande qualità e il savoir faire di una filiera integralmente made in Italy.
Proprio dello stato dell’arte e delle tendenze in atto su questo fronte si è discusso a “Back to Italy”, il diciannovesimo convegno Pambianco.
La quota media di tessile-abbigliamento prodotta in Italia è rimasta stabile negli ultimi tre anni e rappresenta il 53 per cento della produzione. Ma si nota una spinta a riportare a casa gli impianti, in particolare tra le aziende di fascia alta, che hanno oggi i margini per ritornare in Italia. Per le imprese di fascia media, invece, si stima che producano un terzo dei loro prodotti in Italia e due terzi all’estero, in particolare in Cina, Romania e Turchia.
Secondo Flavio Valeri, chief country officer di Deutsche Bank, “I cambiamenti strutturali e le eccellenze locali rendono il back to Italy un trend che deve essere maggiormente comunicato, valorizzato e appoggiato nel prossimo futuro”. Mentre Mario Boselli, presidente della Camera nazionale della moda italiana, ha fatto notare come durante la crisi iniziata nel 2008 le aziende che hanno retto meglio sono state quelle ‘full made in Italy’ e ha aggiunto: “Di certo è finita l’epoca della delocalizzazione. E se il back to Italy è una prospettiva realistica, ancora più realistico è il ritorno alla zona pan-europea nel suo complesso”. Diego Della Valle, per parte sua, ha affermato che “non bisogna demonizzare chi non può più produrre qui in Italia”, ma ha anche avanzato tre proposte per favorire il ritorno delle imprese. La prima riguarda gli investimenti: “servirebbero investitori impegnati a restare nel capitale almeno tre anni, per preparare le aziende al salto di qualità, magari alla quotazione”. La seconda riguarda la manodopera: “bisognerebbe ricostruire le professionalità, a partire da una riorganizzazione e riqualificazione delle scuole professionali”. Terza proposta, immediatamente realizzabile se ci fosse la volontà politica: “uno sconto fiscale per le imprese che producono vero made in Italy”.